Intervista a Vera Gheno, sociolinguista brutalista

L’1 novembre ho avuto l’onore e il piacere di intervistare Vera Gheno, sociolinguista e traduttrice dall’ungherese, per Andergraund, rivista di letterature mitteleuropee e dell’Europa orientale alla quale collaboro. La prima parte di quell’intervista ha riguardato il suo lavoro di traduttrice e il suo legame con l’Ungheria, la potete trovare al seguente link: https://www.andergraundrivista.com/2020/12/08/unintervista-a-vera-gheno-traduttrice-brutalista/


Il tuo primo libro, Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi), correggimi se sbaglio, risale al 2016. Da quel momento, il tuo lavoro di sociolinguista ti ha portato una discreta fama: ti vediamo spesso in televisione, hai tenuto tre conferenze TEDx e condividi il palco con scrittrici famose come Michela Murgia. Avevi previsto un simile successo? (Per noi studenti di ungherese eri un’istituzione già dieci anni fa)

No, assolutamente non mi aspettavo nulla di tutto questo, anche perché nei sedici anni precedenti non è che abbia avuto molti riscontri. Se ci penso, non avevo mai pensato di scrivere libri, come non avevo mai pensato di tradurre, anche perché la mia dimensione è il racconto. Ho un passato da scrittrice in erba, e la forma che mi piace è la novella, il racconto breve, della lunghezza di quelli di Örkény, cioè in due tre pagine raccontare una storia, che è quello che cerco di fare su Facebook con i post.

Tutto è partito con Guida pratica all’italiano scritto, che doveva essere semplicemente il libro di testo del mio corso, infatti all’inizio si chiamava “Laboratorio d’italiano scritto”; poi la persona che alla Franco Cesati Editore si occupava del marketing mi ha detto che così non avrebbe venduto nemmeno una copia. Abbiamo fatto un brainstorming praticamente un giorno prima di andare in stampa per trovare un titolo; “Guida pratica” è venuto fuori assieme, però mancava ancora la parte un po’ scherzosa, e allora ho pensato alla parentesi, che è stata un po’ anche la sua fortuna. Quel libro è uscito grazie a Silvia Columbano, una mia ex studentessa, che oggi è il braccio destro di Franco Cesati: è stata lei a lanciare l’idea di fare il libro del corso, l’aveva frequentato, le era piaciuto tanto e mi ha contattato. Credo che sia tutt’oggi il mio libro più venduto. È buffo perché ha contribuito a lanciare una collana di saggi pop, è diventato quasi un caso editoriale e così ho attratto una serie di grandi editori. Poi il resto è storia.

Non sono mai andata io a cercarmi un contratto. Lo dico anche con un po’ di orgoglio, tutti i libri che ho scritto sono libri che mi sono stati proposti.
Ci ho messo tanto a trovare la mia voce ma penso che quello che sia successo negli ultimi quattro anni è che l’ho trovata. Ho pochi capisaldi. Il primo è: non parlo di ciò che non conosco. Il secondo è: la lingua in qualche modo entra praticamente in tutti i contesti; di conseguenza, quello che faccio non è perdermi in mille “cazzate”, come qualcuno ogni tanto ha da dire, poiché tutti i miei interventi come denominatore comune la lingua. Posso andare a parlare agli odontoiatri, ai cineasti, in un consesso LGBT: alla fine la lingua la usiamo per tutti questi scopi. Non mi sento per nulla dispersa, sento di applicare una griglia di pensiero ora a un certo contesto linguistico, ora a un altro.

A proposito di “grammarnazi”, se prendo in mano un tuo libro, vedo un vasto apparato critico, un approccio scientifico ricco di citazioni, di onestà intellettuale nei rimandi a fonti altre, ricordando che non ti inventi nulla di sana pianta. D’altro canto hai però quello che di solito i docenti non hanno, cioè questo lato pop, ossia usare parole come appunto grammarnazi o quel bellissimo neologismo che è minchiarimento. È stato frutto di una scelta conscia o ragionata?

È il mio stile, qualcosa che si è costruito nel tempo. Sono cresciuta in un contesto molto alto, cioè i miei genitori sono dei veri intellettuali; non ho mai avuto la televisione (e continuo a non averla), abbiamo sempre letto di libri e parlato di libri in casa. Ma al contempo ho sempre avuto un grandissimo fastidio per gli intellettuali che si prendono troppo sul serio, non li digerisco proprio. Quando poi sono finita in un’ambiente d’avorio come la Crusca, il mio fastidio per la conoscenza a compartimenti stagni è aumentato ancora. Sono stata poi sempre libera nelle letture, cioè ammetto, per esempio, che non ho mai letto Proust, ogni tanto ne cito dei passi ma non ho letto tutta la Recherche, come non ho letto tanti grandi perché da sempre mi sono interessate la science fiction, il fantasy, l’erotica; mi sembra così sciocco tenere separati gli scompartimenti! Mi ricordo, quando leggevamo Catullo al classico, Passer, deliciae meae puellae… ma che passerotto di Lesbia! Quello è evidentissimo che è una metafora sessuale, mi ricordo allora che andai a cercare le moderne traduzioni di Catullo per scoprire che lui era uno violentissimo, “senatori, ve lo troncherò nel culo” [Carme 16], ah vedi! Per cui l’idea di mantenere separato il pop dalla cultura alta mi è sembrata una sciocchezza, una cosa utile per chi si sente chissà chi perché ha studiato. Poi ho approfondito con De Mauro, Gramsci ecc. e la mia visione della cultura ora è “ma ringrazia Iddio che hai potuto studiare!”, cioè non hai nessun motivo di tirartela, per cui ho coltivato quello stile lì anche per dar fastidio, lo ammetto. Direi che quello è il mio stile personale, abbastanza naturale, sul quale però ho lavorato perché, crescendo, mi sono resa conto di quanto sia osteggiato uno stile che non mantiene le separazioni tra alto e basso.
Ricordo i miei studenti, i primi anni quando ero poco più grande di loro, che mi dicevano “eh professoressa, io i grandi classici non riesco proprio a leggerli”. Ma che ti frega, ma leggi Zerocalcare, leggi! Il punto è essere curiosi. Non è che se non leggi Proust o Dostoevskij non vali nulla, leggi qualsiasi cosa, va bene! I ragazzi a scuola affrontano la “letteratuuura didascaaaalica pesaaante” di Verga e Manzoni ma sarebbe utile sapere, in classe e non a quarant’anni, che anche quest’ultimo era “super pop”: usava forme del tipo “se lo sapevo, non venivo”. Se anche Manzoni lo usava, non è la fine del mondo: elasticità!

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Avvicinandoci a Femminili singolari, uno dei testi più discussi in questo 2020, italiano e ungherese gestiscono in maniera diversa la questione. Da traduttrice verso l’italiano avrai di sicuro dovuto specificare morfologicamente il genere di parole ungheresi di cui però spesso non è specificato il genere. Quale sensazione ti ha suscitato un’operazione simile, che spesso culmina in un “maschile sovraesteso”?

La questione si pone tutte le volte che passi da una lingua senza genere, o con genere naturale, come l’inglese, a una lingua con genere grammaticale come l’italiano. Direi che ho risolto di caso in caso, anche se non ho più tradotto da Femminili singolari in poi, per cui adesso forse lo farei con una consapevolezza diversa. Non ho però alcun problema con il maschile sovraesteso in generale, a meno che non si tratti di testi molto specifici, in cui c’è una volontà di essere particolarmente inclusivi o attenti alla diversity quali la saggistica di stampo femminista o queer, ma in un testo narrativo hai abbastanza libertà di movimento da o trovare una circonlocuzione o trovare una soluzione che possa andar bene. Il problema è quando ti rivolgi a una platea mista; se si pensa a tutte le rivendicazioni femministe, usare il maschile sovraesteso può essere fastidioso, e questo è appunto il caso in cui uso lo schwa. Ma anche io uso in maniera discontinua lo schwa perché per esempio in un post di ieri ho iniziato con “buonasera a tuttə” e poi ho parlato di “frequentatori del feed”, perché una cosa è appellare e un’altra è usarlo con nonchalance nel corso del testo. Forse con la prossima traduzione, avendo studiato nel frattempo, ci farò più caso e agirò di caso in caso. Forse non tanto da inserire uno schwa in una traduzione di un testo narrativo, ma comunque con un po’ più di attenzione alle questioni di genere.

La casa editrice effequ ha recentemente scelto di adottare la tua proposta dello schwa per esprimere una maggiore inclusività. In che modo è un’opzione praticabile nel mondo della traduzione?

La prima applicazione ufficiale dello schwa è proprio in una traduzione, Il contrario della solitudine di Marcia Tiburi (effequ). Lei è una saggista e filosofa femminista e in brasiliano-portoghese usa una “forma terza”: oltre a dire todos e todas, dice anche todes. Ed è proprio per tradurre questo todes che è venuto fuori tuttə. Questo è il campo d’applicazione al momento. So che c’è un romanzo di fantascienza che si svolge in futuro a-gender, in cui le persone non hanno genere o la maggior parte delle persone è tecnicamente ermafrodita, in cui hanno usato lo schwa. [Murderbot di Martha Wells, Mondadori]. Si tratta di contesti molto particolari. L’11 novembre esce la traduzione di Girl, woman, other di Bernardine Evaristo [Ragazza, donna, altro, SUR], Booker Prize 2019, dove lei impiega forme tipo womanx o altri esperimenti inclusivi che si usano in inglese, sono curiosa di vedere come li hanno tradotti. Quindi lo schwa è un’opzione qualora il testo di partenza richieda una particolare attenzione o tratta temi d’inclusione ecc., per il resto non “pasticcerei” troppo.

Nella seconda sezione di Femminili singolari, hai inserito un lungo elenco di esperienze con l’internauta medio in cui riporti domande maligne o commenti di “pancia”. Leggendolo, si ha l’impressione che tu sia costretta a spiegare e rispiegare mille volte le stessa cose, una fatica che definire sisifesca sarebbe un eufemismo. Come trovi la pazienza e la forza di rimanere calma, di continuare il dibattito democraticamente e scientificamente, rileggendo gli stessi commenti a centinaia, giorno dopo giorno?

Tutti quelli che mi fanno questa domanda sottovalutano la potenza perversa del non perdere la pazienza. È difficile lì per lì però è come un’arte marziale, qualcuno lo chiama l’aikido della comunicazione, perché non dai mai colpi diretti ma casomai aiuti l’altro a cadere, che è una cosa molto passivo-aggressiva se ci pensi. È quello che io cerco di fare online, lasciando che miei antagonisti si ingarbuglino da soli. Seconda cosa: un grande aiuto, soprattutto online, ma anche di persona, è la consapevolezza della presenza degli altri. Ovviamente, quando sei in una sala piena, è più evidente, ma quando sei online, sei comunque in pubblico, e bisogna rendersi conto che la maggior parte delle persone che legge non interviene, né a favore né contro. Nel libro che ho scritto con Bruno Mastroianni, Tienilo acceso (Longanesi), la chiamiamo “la moltitudine silenziosa”. Quando sto per perdere la pazienza, penso che questo atto linguistico avviene davanti a centinaia di persone che stanno osservando, anche se non intervengono. Chi è che ne esce meglio? Quello che insulta – l’istinto è presente in tutti noi – o se ne va con un “arrivederLa” a mo’ di boomer, oppure chi resta calmo? La cosa difficile è andarsene, comprendere di aver esaurito il proprio compito, di aver dato tutti gli strumenti necessari per chi vuole continuare ad approfondire, da lì in poi diventa solo harakiri. Non è facile ma è anche il modo in cui io preservo la mia sanità mentale.

È da notare che tanti dei commenti che hai preso sono dell’8 marzo. Sembra quasi che la festa delle donne produca un rigurgito di misoginia, molti utenti sembrano quasi offesi che le donne possano avere una festa tutta loro.

Sì, sto leggendo proprio ora il libro di Giulia Blasi, Rivoluzione Z (Rizzoli), un libro sul femminismo per la generazione Z.  Oltre a sollevare molte di queste questioni, dice per esempio che il femminismo non è una questione solo di donne, perché il femminismo si oppone al patriarcato e il patriarcato è una visione della società che danneggia sia maschi che femmine. [A questo punto estraggo il nuovo libro di Gasparrini, No. Del rifiuto e del suo essere un problema essenzialmente maschile, edito da effequ] Così come non permette a me di arrivare a certe posizioni, così non permette a te di metterti lo smalto sulle unghie se ti va; per me tu potresti farti la barba bionda o a strisce senza che questo ti renda meno Richárd, meno virile, meno di quello che sei. Non so i tuoi gusti sessuali ma quali che siano non importa, cioè non dovrebbe portare a giudizi o pregiudizi rispetto a quello che sei o quello che ti senti. Infatti, quando Fedez si è messo lo smalto, ho detto “bene!”, perché anche da queste piccole cose si approfondisce l’idea di una società in cui ci sia una convivenza con le diversità, come dice il mio amico Fabrizio Acanfora. Per cui io non lotto solo per arrivare alle donne ma anche perché il maschio sia libero di vestirsi e comportarsi come c***o gli pare e piace, piangere, vestirsi da donna, vestirsi da uomo, ricamare ecc.; e basta con queste fissazioni!

I commenti che hai inserito sono sia di uomini che di donne, hai fatto dunque notare che la questione dei “femminili singolari” è spesso un problema per le donne stesse.

Perché il patriarcato avvelena i pozzi sia di maschi che di femmine.

Il tuo libro mi ha aiutato molto a pormi tante domande che non mi sarei posto.

Una cosa fondamentale è rendersi conto dei privilegi che uno ha, non sottovalutare quando una persona che magari non ha quel privilegio ti viene a dire “questa cosa mi provoca un problema”, non soltanto fra donne e uomini, ma in generale, non so, neri, omosessuali, persone con disabilità, neuroatipici ecc. Diciamo che una cosa che ho imparato negli ultimi anni è proprio quella dell’ascolto; lo ricorda il mio collega Federico Faloppa, che cito spesso, in un libro che si chiama #Odio. Manuale di resistenza alla violenza delle parole (UTET). Lui dice che una cosa molto importante è ascoltare le vittime, cosa che spesso quando uno ha un privilegio non fa, minimizzando con “eh ma queste sono cazzate”; però se tu fossi donna, e da una vita sei inclusa all’interno del maschile, soprattutto quando quell’esperienza meramente linguistica impatta con esperienze di discriminazione reale, ecco che improvvisamente ti rendi conto che le parole non sono solo parole.

Volevo leggerti un messaggio che mi è arrivato su Messenger da una persona che non conosco. “Gentile Vera, mi permetto di scriverle qui, in risposta al suo post sull’utilizzo dello schwa, perché l’argomento tocca una corda sensibile della mia vita. Questo carattere racchiude in sé tutta la tenerezza e l’amore con cui un genitore si rivolge al proprio figlio o figlia alle prese con la disforia di genere. Mia figlia adolescente, che sta vivendo un momento di passaggio, probabilmente, a un futuro genere maschile, non ama ovviamente essere interpellata al femminile. Io cerco di adeguarmi ma con grandissima fatica e spesso mi rendo conto di pronunciare lo schwa come estremo tentativo di tenere in equilibrio i due generi che compongono la sua personalità. Sarà pure aborrita dai puristi della lingua ma io ci trovo un segnale di inclusività e amore verso il genere umano nelle sue infinite sfaccettature che non riesco a spiegare altrimenti se non raccontando la mia esperienza. La ringrazio”. Sono per messaggi come questo che continuo a occuparmi della questione. Io sono banalissimamente eterosessuale e cisgender, e trovo abnorme e disumano che ci siano discriminazioni basate sul genere o sui gusti sessuali. Probabilmente la mia ricerca continuerà in quella direzione, anche “oltre” il femminismo, nell’ottica del transfemminismo, perché queste persone hanno bisogno di una voce, e vorrei aiutarle, anche se poi mi dicono che sto “cavalcando l’onda”. Uno si sceglie l’ambito in cui può fare qualcosa, c’è chi sceglie di aiutare i bambini in Africa, chi i sieropositivi, io per alcuni casi della vita mi sono trovata ad avere a che fare con le persone appunto non-etero e non-cis.

Abbiamo una grande fortuna a vivere al tempo di questa terza ondata femminista, ricca di contributi transfemministi, post-coloniali e ora anche linguistici, come il tuo.

Quello che sento mancare è farlo gioiosamente, cioè io faccio parte di movimento femminista, – anche se faccio fatica a usare l’etichetta “femminista” perché richiede studio, e quindi non mi sento all’altezza dell’etichetta, ma non perché me ne vergogni, anzi! – che vorrebbe far vedere che esiste un femminismo “gioioso”, non di barricate, di maschi da evirare o di “se ti tagli i peli sei complice del patriarcato”, un femminismo sereno, inclusivo e felice. Io sono dell’ottica che il femminismo, a parte essere per forza intersezionale e transfemminista (per me non ci può essere un femminismo che non abbia queste due caratteristiche), difendendo i diritti di una parte dell’umanità possa essere anche un’attività gioiosa, non per forza incazzata. L’altro giorno ho parlato in radio con Jonathan Bazzi, l’autore di Febbre. A Bazzi non perdonano che non dimostri contrizione per essere sieropositivo. “Per quanto abbia avuto una vita sessuale sopra le righe ho sempre preso le mie precauzioni, questo è e non mi sento in colpa, vivo con questa cosa, sono gay, sono frocio, mi piace vestirmi alla Elton John, se mi va, e c’ho l’HIV e non mi sento in colpa”: questa è la cosa che non gli perdonano. Perché per loro un omosessuale, un trans, un sieropositivo dovrebbero essere rotti dentro: è questa la visione che io rigetto.

Capisco cosa intendi per “gioia”, è la stessa emozione che ho provato traducendo Trans, il sesto racconto di 1945 e altre storie (Anfora, gennaio 2021). Grazie mille Vera.

“Colei che ora cerco” (Akit most keresek) di Závada Péter

Závada Péter.jpg

Colei che ora cerco

Che fossi fredda come una crema.
Questo mi è rimasto di quell’estate.
Il ritirarmi all’ombra tue frasi,
come fossero radici di un albero.
 
E la differenza di pressione
per cui il respiro diventa sospiro.
I turbamenti, come scatole di latta vuote,
strepitare nel tuo petto.
 
Penso di confonderti col tuo ricordo.
Se voglio sfiorarti devo protendere
la mano attraverso il tempo,
come in uno specchio.
 
Eri allora colei
che ora cerco.
 
ORIGINALE/EREDETI SZÖVEG:
Akit most keresek
 
Hogy hideg voltál, mint a krémek.
Ez maradt meg abból a nyárból.
Mondataid árnyékába húzódni,
mintha egy fa tövébe.
 
Meg a nyomáskülönbség,
amitől a lélegzetből sóhajtás lesz.
A gondok, ahogy üres bádogdobozokként
zörögtek a mellkasodban.
 
Azt hiszem, összekeverlek az emlékeddel.
Ha hozzád akarok érni,
át kell nyúlnom az időn,
mint egy tükrön.
 
Akkor voltál az,
akit most keresek.

Quant’è commovente un poeta inetto! di Kosztolányi Dezső

Evangelina Gemma Alciati (Italian painter) 1883 - 1959, La violinista (1918), Galleria d'arte moderna (Roma).jpg

Quant’è commovente un poeta inetto! Sono anni
che non l’hanno nominato, lentamente l’hanno inabissato nell’oblio.
Logorato e brizzolato zoppica ora, dondola anche il bottone
del suo cappotto mentre lacero e fischietta i suoi versi inediti
al vento invernale. Quanta fierezza, quanta forza. Sul suo volto
rancore, invidia, da lontano appare come un qualche
etereo dolore. Accanto a lui i famosi,
celebrati da articoli comprati e festeggiati dagli applausi
di barbare sale da concerto, mercanti, o arrivisti.
Sempre più calvo, sulla fiera fronte di profeta la vita
vi pose una ghirlanda illacrimata, innalzando a divinità
quello che in gioventù fu il suo sogno, nel quale crede sempre più.
Persino la magrezza originata dalla malnutrizione e da polmoni malaticci
lo carica di fascino. Come in un libro.
Invano parlate, critica, letteratura.
Costui è l’idealismo. Costui è il vero poeta.

(Originale) Egy rossz költő mily megindító

Egy rossz költő mily megindító. Már évekig
nem beszéltek felőle, azután lassan elfelejtették.
Megkopva és őszen bandukol most, szakadozott
kabátja gombja fityeg s kiadatlan verseit fütyörészi
a téli szélnek. Mennyi gőg és erő. Az arcán
gyűlölet, irigység, mely messziről valami etherikus
bánatnak látszik. Mellette a híresek,
kiket fizetett cikkek magasztalnak és ünnepelnek a vad
hangversenytermek tapsai, kalmárok, vagy szerencsevadászok.
Kopaszodó, büszke apostol-homlokára az élet
tette könnyes koszorúját, fölistenítve
ifjúkori álmát, melyben egyre jobban hisz.
Még a rossz táplálkozástól és tüdőbajából származó
soványsága is stilusos. Akár a könyvben.
Hiába beszéltek, kritika, irodalom.
Ő az ideálizmus. Ő az igazi költő.


Dipinto: Evangelina Gemma Alciati, La Violinista, 1918
Galleria d’Arte Moderna, Roma.

Barbaro

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Raccontami della tua capanna nella steppa
ora cenere sotto lo zoccolo dell’unno
che ti ha cacciato dalla dimora dei tuoi avi.
Raccontami di come hai passato il limes
di tuo fratello inghiottito da una bocca di lupo
abbandonato lì all’ombra di mura invalicate.
Raccontami dell’inverno nelle selve teutoni
o del vento sferzante della Pannonia,
della fame di una marcia appesantita
dall’attrito delle radici spezzate.

Al tuo arrivo ho conosciuto il vero volto
del mio vicino, del mio stesso sangue,
dalla porta che ti ha chiuso
dalla distanza che ha preso al tuo passaggio.
Dicono che il barbaro sia arrivato
ma ha sempre dimorato qui
nella stanza, nel cortile accanto,
non è comparso alla fine della tua odissea.

19 marzo 2017